Memorie da eroe romantico

Memorie da eroe romantico

Era domenica mattina. Eravamo giunti a Recanati il pomeriggio del sabato con mamma, babbo e Sonia. E la missione di allora non riguardava la visita di casa Leopardi, che ci occupò comunque parte della mattinata: peraltro ricordo che v’era una mostra di dipinti di Lorenzo Lotto, per i quali francamente non saprei trovare opportuni collegamenti al verseggiare del divino Giacomo. Ebbene: s’era lì per uno dei miei primi concorsi pianistici.
E’ giusto sottolineare come allora un viaggio di quattrocento chilometri con pernottamento alberghiero fosse un’avventura che non solo postulava una visita ai parenti prima della partenza, ma che soprattutto destava l’interesse di più di qualche concittadino. A scuola in quei giorni – era il tredici aprile millenovecentottantasei – ci si preparava per gli esami della quinta elementare; la maestra con i compagni viveva queste avventure insolite con un interesse e, direi, con una trepidazione che oggi parrebbero mestamente ridicoli e fuori luogo. V’è da dire che a quel punto dell’anno scolastico L’infinito, A Silvia, La quiete dopo la tempesta, Alla luna e Il sabato del villaggio erano divenuti patrimonio della mia memoria. Ad essere onesti, tuttavia, credo fossi intrigato quasi esclusivamente dalla sinuosa beltà dei versi, che leggevo non tanto dal sussidiario, quanto dalla letteratura ingiallita di mia madre: era il volume delle magistrali, da cui s’esalava quell’inconfondibile lezzo ottocentesco che da solo sapeva trasportarti magicamente tra i viottoli del “natìo borgo selvaggio”. Ero affascinato da quel mitico eroismo romantico, di cui sognavo, forse, un giorno di essere paladino; confesso che già allora mi veniva da emulare quello stile e deve essermi rimasto come sigillo indelebile ancor oggi. In fondo la musica di Chopin, che avrei suonato proprio dentro una della stanze di casa Leopardi, mi sembrava congruente con quello spirito. E poi quella sorte così affine dei due creatori d’arte mi colpiva: trentanove anni di esistenza tormentosa per entrambi, la tisi e quella patetica visione del mondo che avrebbe di certo condizionato il pensiero della mia prossima adolescenza, e non solo.

Beh. Quella a cui stavo partecipando era un’avventura affascinante, ma pur sempre un’avventura. Solo un anno prima sembrava a molti che la musica non fosse una degna compagna della mia esistenza e s’era anche valutato di appendere la tastiera al chiodo. Ero il più piccino della mia categoria, che ammetteva anche ragazzoni di quattrordici anni, i quali sfrecciavano sulla tastiera come dei fulmini. Li avevo ascoltati durante le prove e mi era capitato di chiedermi cosa ci facessi io lì con le Variazioni di Kabalevsky e con il Valzer in la
minore di Chopin. In verità quest’ultimo era il pezzo d’obbligo e quindi tutti l’avrebbero suonato. Io l’avevo apprezzato qualche mese prima ad un altro concorso: eravamo ad Albenga e lì la spedizione sandonatese era avvenuta con Martina, un’allieva del mio maestro poco più grandicella di me, e la sua famiglia. Lei era della categoria successiva alla mia, ma avevo seguito tutta la preparazione durante le lezioni alla scuola di musica. E dicevo tra me e me: “Un giorno lo suonerò anch’io!”.
Il tempo era divenuto rapidamente maturo ed ora sarebbe toccato a me. E proprio dentro casa Leopardi, con le copie dei manoscritti dei Canti alle mie spalle! Ricordo quando mi sedetti davanti a quel Petrof dal suono caldo: aveva i pedali più alti del solito, che dovevo azionare con le College, di cui i miei genitori erano fieri. Io lo ero molto meno ed avrei preferito delle scarpe da tennis. Ma allora non veniva presa in considerazione l’eventualità di esibirsi in abiti che non fossero curiali; e per questo avevo già imparato a frequentare gli odiosi
atelier della mia città. Attaccai quel mi naturale in levare con il pollice, che si adagiò sul tasto con una pressione talmente mordida da evocare il dolce naufragio oltre il colle dell’Infinito, che distava peraltro pochi metri da me. E da lì fu tutto un intercalare di memorie; tanto che quando terminai, mi sembrò di essermi “indiato”. Non lo saprei spiegare altrimenti, ma fu così. Presi il secondo premio. Più memorabile, a dire il vero, fu la telefonata di uno dei commissari al mio maestro nelle giornate seguenti. “Quel ragazzino c’ha qualcosa di unico” sembra abbia riferito. Insomma, c’ho ancora la registrazione in cassetta di quel pomeriggio e francamente non so come sia uscita quella magia dalle dita. Da quel momento iniziai a convincermi del fatto che l’arte di Euterpe sarebbe stata una compagna fedele della mia esistenza; forse non degna di tanto lusso – come si era supposto -, ma agghindata da quel giorno dal fervore incomparabile della magia di un eroe romantico.


San Donà di Piave, li 13 aprile 2021